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domenica 8 novembre 2015



RICORDO DI NATALE

mi sbillonzola sempre una visione nella cassapanca
piena zeppa di ricordi di questo santo giorno di Natale:
quella cara donna che era una volta mia nonna Vittoria,
carica a disgrazie, fatiche, sorrisi e bene infinito per me soltanto,
piccolo bambino birichino, allegro, ma sempre così buono con lei.
lei col fazzoletto ben stretto in testa, che ci faceva sempre un bel freddo anche in casa, da starci sempre sotto al focolare acceso,
dove sempre bollivano le fave o i ceci nelle pignattine,
o si arrostiva un pezzo di pasta di pane nella cenere rovente,
raccontava la nonna favole assurde, di streghe, lupi, leoni di montagna. mi faceva paura a volte, ma forse era un trucco per farmi passare il freddo. e la cappa sfrigolava, s'accendeva la ciniscia, sprizzavano le faville, scoppiettavano i grossi ceppi di legna. i miei genitori erano in campagna a raccogliere le olive, fino a sera tarda,e a casa si sentiva affilata l'aria di neve che già da qualche parte sulle colline s'era cominciata a svolazzare fitta fitta. e là nel cortile pigolavano le galline, e zompettavano allegre le caprette. chiamavano la nonna all'ultimo pasto serale, e la nonna portava loro canigghia, pugni di orzo e di granone, che fosse un buon Natale anche per loro, povere e care bestie. e per l'aria del paese di contadini il vento portava con l'aria ghiacciata qualche cantilena di fisarmonica, qualche filastrocca di zampogna di pastori di ritorno alle stalle di periferia. e io allargavo gli occhi di curiosità e volevo uscire ma mia nonna me lo impediva, che non mi buscassi per nulla una saetta di freddura. e lì, vicino al fuoco, la nonna continuava a dipanare il suo gomitolo infinito di storie e favolette, la matassa infinita del suo bene per me. ma mio padre e mia madre tardavano ancora, perché dopo la raccolta bisognava pure andare a scaricare le olive al frantoio,e lì c'era sempre una fila che non finiva mai. che la neve era là attorno e bisognava sbrigarsi, spicciarsi, portarsi avanti. e così dopo avermi fatto mangiare un piatto di pan cotto, mezza focaccetta abbrustolita, mia nonna mi portava a letto, e lì mi suggeriva i sogni, parlando di melecotogne, di fave bianche, delle storie dei vecchi santi appesi alla parete che conosceva solo lei. e lì poi lei se ne ritornava accanto al fuoco e si metteva a cantare delle antiche litanie di contadini in dialetto, che parlavano di giorni bui, di giorni accesi, di campane che suonavano a festa. e lì come per prodigio le campane del paese si mettevano davvero a suonare a festa. da lontano, da vicino, con l'aria di neve che vorticava tutt'attorno alla casa, al cortile, alla piccola stalla delle galline e delle capre. era Natale! era Natale! con i miei genitori che non erano ancora tornati, ma erano per via, come tutti i buon pastori, come tutti i bravi contadini che prima di tornare a casa andavano a salutare Gesù Bambino. io allora chiudevo gli occhi e mi mettevo a sognare tutti i regali che mi avrebbe portato anche a me, che non ero cattivo e che a Gesù Bambino gli volevo davvero bene, così come mi diceva di fare nonna Vittoria, che mi era così cara.
GIUSEPPE D'AMBROSIO ANGELILLO

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